UFFICIO LITURGICO NAZIONALE
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

6 aprile – V Domenica

Lo svuotamento di Gesù Gesù si china sulla realtà più terribile dell’esperienza umana: la morte e il dolore per la perdita di una persona cara. Così egli si fa vicino ad ogni persona bisognosa del suo conforto: dopo i dispersi, gli ammalati, i peccatori, ora anche chi soffre per la morte.  Non gli manca altro […]
17 Febbraio 2014
Lo svuotamento di Gesù
Gesù si china sulla realtà più terribile dell’esperienza umana: la morte e il dolore per la perdita di una persona cara. Così egli si fa vicino ad ogni persona bisognosa del suo conforto: dopo i dispersi, gli ammalati, i peccatori, ora anche chi soffre per la morte.  Non gli manca altro che subire personalmente la sofferenza e l’uccisione.
 
La tentazione
«Se tu fossi stato qui…» «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva far sì che costui non morisse?». La realtà drammatica della morte sembra smentire la bontà di Dio, la sua misericordia verso l’umanità; e confermare il sospetto che da parte del cielo non ci sia altro che indifferenza per le sorti umane. Nella nostra cultura, la tentazione di fronte alla morte prende la forma di una pacata rassegnazione, che pare ragionevole e tranquillizzante: inutile farsi illusioni, perché la morte fa parte della normale condizione dell’uomo. Chi non si aspetta nulla, non ne subisce più l’angoscia.
È chiaro che, una volta diffusa su larga scala, una simile visione conduce rapidamente al cinismo e a quella che il Papa chiama “la globalizzazione dell’indifferenza”. La prospettiva ristretta di un’esistenza chiusa rende per la massa rende appetibile unicamente il godimento immediato, rimuovendo ogni inutile complicazione morale.
 
La preghiera
«Se tu fossi stato qui… »: le parole di Marta e Maria varcano la soglia della tentazione, e sfondano decisamente la porta della preghiera, della relazione con colui che accetta di morire, ma solo per risorgere. Il più delle volte noi non abbiamo il coraggio di varcare quella soglia, quasi per il timore di offendere Dio. E così ci si sforza di tenere il dolore dentro, lasciando che diventi un ostacolo nel rapporto con Dio, nella nostra fede in Gesù.
 
Il brano di Lazzaro ci mostra da una parte Marta e Maria che non hanno paura di esprimersi con estrema franchezza, e dall’altra Gesù che condivide, fa suo il dolore delle sorelle per la perdita del loro caro; la sua kenosis comporta non solo un calarsi nella morte, ma prima di tutto l’abbraccio all’umanità dolente e tentata dalla disperazione.
 
Il pianto
Il pianto di Gesù di fronte al sepolcro dell’amico indica la serietà dell’esperienza della fine della vita. Non solo la morte di Lazzaro sta davanti a lui, ma la condizione mortale di tutta l’umanità: che per essere sanata richiede niente di meno della croce. Lo svuotamento progressivo, che si sta contemplando  nelle domeniche della Quaresima, giunge ad un punto di non ritorno: Gesù, colui che è passato “sanando e beneficando tutti” ha percorso tutte le vie possibili della solidarietà esteriore: gli manca unicamente di condividere nella sua stessa carne la sofferenza umana. Solo passando per la via dell’annichilimento di sé Gesù può essere per noi “risurrezione e vita”.
 
Il dialogo
Il dialogo con Marta e Maria conduce alla rivelazione di Gesù come “risurrezione e vita”, il Figlio di Dio, “colui che viene nel mondo”. Chi vive e crede in lui, “non muore in eterno”. Ciò significa che da subito l’esistenza del discepolo di Cristo è afferrata nella prospettiva dell’eternità, non è più puramente terrena. Lo mostra anche il brano della lettera ai Romani, che mostra come ormai essi siano definitivamente passati dal dominio della “carne”, della fragilità peccaminosa, al dominio dello “Spirito”, della presenza illuminante di Dio stesso in noi. Con un’espressione fortissima si aggiunge: “il vostro corpo è morto per il peccato”. La morte infatti, secondo la mentalità antica, annullava le obbligazioni e i debiti, rendeva radicalmente impossibile ogni comunicazione. Paolo intende dire che ogni obbligo verso il peccato è scaduto, non c’è più nessuna comunicazione; nella misura in cui partecipiamo e corrispondiamo allo Spirito, è possibile davvero vivere un’esistenza rinnovata, nell’attesa che anche i corpi mortali abbiano la vita.
 
Più che le sentinelle l’aurora
Il brano del profeta Ezechiele mostra una prospettiva più antica sul problema della mortalità e della risurrezione. Nella visione del profeta, la risurrezione è attribuita al popolo intero di Israele: non si presenta qui un’idea di sopravvivenza individuale, ma la sopravvivenza dell’individuo nella sua discendenza e nel popolo intero. I singoli muoiono, ma Israele continuerà a vivere. Il ritorno nella terra di Israele dopo l’esilio sarà come una risurrezione di tutto il popolo. Una simile concezione da parte del profeta ci appare forse oggi un po’ riduttiva: eppure nella storia di Israele essa è stata estremamente feconda, ponendo le basi per l’annuncio di Gesù. Dovremmo imparare dai profeti che cosa significa aspettare Dio con intensità e desiderio.
Anche il salmo lo dice con una splendida immagine, due volte ripetuta: “come le sentinelle l’aurora”. L’ultimo turno di sentinella è il più insidioso: quello in cui potrebbe essere più facile addormentarsi, quello in cui potrebbe essere più probabile un attacco di sorpresa del nemico. Quando giunge l’aurora, è una vera liberazione, come essere scampati alla morte. Ma noi desideriamo il Regno di Dio con la stessa intensità?