UFFICIO LITURGICO NAZIONALE
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

11 maggio – IV Domenica di Pasqua

Gesù innalzato, pastore delle pecore Gesù innalzato e glorificato può essere pastore del popolo di Dio. L’immagine del gregge e dei pastori è ricorrente nei libri profetici per indicare il rapporto tra Dio e il popolo nel tempo messianico del rinnovamento. Il punto di partenza è l’amara esperienza della storia: nella monarchia, nell’esilio, dopo l’esilio, […]
17 Febbraio 2014
Gesù innalzato, pastore delle pecore
Gesù innalzato e glorificato può essere pastore del popolo di Dio. L’immagine del gregge e dei pastori è ricorrente nei libri profetici per indicare il rapporto tra Dio e il popolo nel tempo messianico del rinnovamento. Il punto di partenza è l’amara esperienza della storia: nella monarchia, nell’esilio, dopo l’esilio, l’antico popolo di Israele sperimenta continuamente la corruzione e l’appropriazione da parte di coloro che dovrebbero esserne i responsabili per conto di Dio. Il brano parla di “ladri, briganti, estranei”: coloro che si rivolgono al gregge per un loro guadagno personale. La situazione cambia dopo la risurrezione: non più condizionato dalla presenza fisica, Gesù può davvero essere buon pastore per tutti coloro che credono in lui. Ogni credente può sperimentare la sua presenza liberante.
 
Perfino nella prigione
Certamente rimane il condizionamento esteriore: restiamo nella storia umana, siamo sottoposti ad autorità politiche, a meccanismi economici, molte comunità cristiane nel mondo oggi sono soggette anche alla persecuzione. Non si tratta di una novità: leggiamo di situazioni simili anche negli Atti degli Apostoli, anche nelle lettere di Paolo, e poi in tutta la storia della Chiesa. La testimonianza di coloro che sono imprigionati, perseguitati per Cristo resta tuttavia chiara: Gesù buon pastore non abbandona il suo gregge; anche se incatenato, il discepolo resta libero, sorretto dalla presenza del Risorto. La seconda lettura ci apre lo sguardo su una simile possibilità: parla di “sopportare con pazienza la sofferenza”, a immagine di Cristo, che “patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”. E nel salmo preghiamo: “non temo alcun male, perché tu sei con me”. Un simile coraggio non è frutto di presunzione o fanatismo: è unicamente il frutto della relazione con Cristo divenuta parte integrante della vita.
 
Ciascuno di voi si faccia battezzare
Il coraggio dell’annuncio appare chiaramente anche nella prima lettura: con chiarezza Pietro con gli Undici annuncia che colui che è stato crocifisso “è stato costituito Signore e Cristo”. Nelle sue parole appare anche la denuncia: “voi avete crocifisso”. Annuncio e denuncia non sono facilmente separabili, anzi, probabilmente non devono essere separati: la loro compresenza è salutare. Gli astanti si sentono “trafiggere il cuore” e si aprono alla conversione. Il segno decisivo è quello del Battesimo nel nome di Gesù Cristo: con esso si riconosce che Gesù è “la porta delle pecore”, colui che dà accesso al Regno del Padre, colui che adempie la promessa di Dio. Come già si è detto, il Battesimo suppone un’adesione personale (“ciascuno si faccia battezzare”) a colui che “chiama le sue pecore, ciascuna per nome”. Il battesimo nel nome di Gesù permette a ciascuno di trovare il suo vero nome, l’azione rituale e sacramentale della Chiesa non è vuoto cerimonialismo, formalità burocratica superabile, come una certa visione superficiale e di comodo tende a far credere.
 
Non più derubabili
La ritualità cristiana sembra in effetti sorpassata dai tempi: ma uno sguardo attento ci fa comprendere che, dal punto di vista del “ladro” e del “brigante” è indubbiamente più comodo avere a che fare con pecore senza nome, slegate dal rapporto con l’unico pastore. Personalità destrutturate, prive di riti in cui si afferma la loro identità e la loro appartenenza, sono molto più facilmente manipolabili; anche la famiglia, tendenzialmente ridotta a libera relazione affettiva, bisognosa solo di un poco impegnativo riconoscimento burocratico, diventa più facilmente plasmabile secondo le esigenze del mercato, entra più facilmente nelle esigenze di un consumo che mira a lucrare su tutti gli aspetti dell’esistenza. I segni sacramentali invece danno un nome al credente, garantiscono la sua relazione con il Cristo e con la Chiesa, mettono la sua coscienza di fronte alla responsabilità di attuare il progetto di Dio, sottraggono i valori all’altalena del gradimento di mercato. Forse proprio perché danno fastidio si rivelano attuali. Ma abbiamo davvero Gesù come Pastore? E viviamo davvero in profondità i segni sacramentali che configurano la nostra relazione con lui?